1.Nel processo creativo come si è articolato il rapporto tra il testo di Auster e la ricerca della tua danza? E quale direzione ha preso questo processo nel reinventare la performance per lo spazio dello stenditoio?
I libri sono come i maestri; arrivano quando si è pronti a riceverli! L’incontro con il testo di Auster è stato casuale; stavo curiosando in una libreria, quando mi sono imbattuta in una sua raccolta di poesie. In questa, ho trovato “White Space”, che è il testo di passaggio tra Paul Auster poeta e Paul Auster narratore. La cosa che mi ha colpito leggendo subito le prime frasi del testo sono stati i ritmi, le suggestioni, le atmosfere, le dinamiche che erano poi le stesse che sentivo e cercavo in sala prove negli stessi giorni attraverso la danza e così è nato questo fondersi. Da qua sono usciti due assoli, complementari ma anche indipendenti l’uno dall’altro. Nel primo è lo scorrere del tempo a essere sottolineato, il correre umano appresso al tempo, il dover recuperare il tempo perso; nel secondo assolo (Non essere mai altrove che qui, Never to be anywhere but here), che presenterò a Teatri di vetro, c’è invece la caduta nel tempo, nella sua pienezza, nel qui e nell’ora, quando il tempo cancella il suo stesso ossessivo scorrere. Leggendo il testo di Auster sentivo tanta danza, tanto respiro, tanta New York, città dove ho vissuto parecchio e che amo. La cosa curiosa che ho scoperto successivamente, facendo ricerche sul testo, è che l’autore lo scrisse proprio dopo essere andato a vedere una prova di una compagnia di danza a Manhattan. Quindi è interessante che una danza possa ispirare un testo che a sua volta ispira un’altra danza; una reazione a catena, causa ed effetto… come ogni altra cosa nella vita…
Le performance si reinventano sempre, un po’ come fare all’amore. Muoiono quando non c’è più stupore nel viverle. Riproporla nello stenditoio, mi emoziona; il posto è molto bello, un palcoscenico del quotidiano; e portare la danza nel quotidiano, da dove in fin dei conti nasce, in un luogo dove si vive, ci si incrocia, dove sono appese le nostre realtà anche apparentemente più banali, può dare secondo me alla coreografia più valore, sottolineando la caduta nel “qui ed ora” e del piacevole perdersi in esso.
2. Che significa per te praticamente abbandonarsi all’ingenuità del semplice sentire? E come questa questione si integra con la scrittura?
L’abbandonarsi all’ingenuità del semplice sentire, è una delle cose più piacevoli ma alla fine anche più difficili da attuare. E’ una cosa sulla quale sto “lavorando” molto attraverso la mia pratica e lo studio dello yoga che mi accompagna ormai dal 1996. La pratica è un po’ come morire e rinascere quotidianamente, dandoci l’occasione di affinare la nostra attenzione, il nostro sentire, l’Ascolto; quindi ci apre a nuove possibilità di azione e di percezione. Partire dal sentire corporeo nel movimento ad esempio ci aiuta ad abbracciare le nostre fragilità, trovando la poesia nascosta dietro di esse, ma ci può anche aprire a possibilità che non avremmo mai immaginato. Un antico testo Yoga dice che per andare avanti nel proprio percorso ci vogliono due elementi: Pratica costante e assidua, accompagnata al non attaccamento ai risultati, al non avere aspettative. Secondo me questo è valido non solo nella ricerca spirituale, ma anche in quella artistica. In “parole yogiche” potrei dire che nell’ascolto di sé la vita si incarna e l’intelligenza profonda del corpo e dell’azione si rivela. Dove sono quando non sono presente a me stesso? Quando perdo il senso dell’integrità del mio essere? Con parole di Paul Auster: Rimanere nel mondo dell’occhio nudo, felice come sono in questo momento. Non essere mai altrove che qui.
3. Provieni da una formazione accademica. Quale e quanto spazio occupano le tecniche formali nella tua concezione di danza?
La formazione accademica è come l’analisi logica e grammaticale; la loro conoscenza ti permette di esprimerti più chiaramente e di imparare più facilmente anche le lingue straniere. Lo studio della tecnica non deve essere certamente fine a se stessa, ma una maniera per renderci più liberi fisicamente e mentalmente. Vanda Scaravelli, una sofisticata yogina e mia fonte di ispirazione anche artistica, dello stesso yoga ha scritto: “Yoga should not be a training for body control; on the contrary, it must bring freedom to the body, all the freedom it needs.” La stessa cosa vale per la danza. In qualsiasi tipo di lezione dal classico al contemporaneo cerco questa libertà: la possibilità di esplorare i colori del mio corpo, delle mie emozioni e del mio mentale e la relazione di questi con lo spazio e il tempo. Spesso come interprete in un periodo della tua vita hai bisogno di studiare in un determinato modo, poi magari per un’altra produzione hai bisogno di un training completamente diverso. Ho avuto la fortuna di danzare a New York in produzioni molto diverse: da spettacoli improntati su un linguaggio “contemporary ballet” al butoh; dalle performance post-modern a lavori basati sulla danza tradizionale coreana. Quindi ho sempre alternato lezioni di classico, cunningham, release, afro-haitiano, improvvisazione, ma anche palestra, corsi di meditazione, piscina, arti marziali, feldenkrais, yoga, etc… Fortunatamente all’estero si tende meno ad etichettare: i labels sono la fine stessa della ricerca artistica. Qua in Italia siamo ancora troppo legati a gruppetti, caste e manierismi, siamo provinciali. Personalmente credo che sia importante anzi indispensabile per un danzatore contemporaneo conoscere a fondo la danza, esplorarne le tecniche, gli stili e le tendenze per poi essere consapevoli di che scelte fare nel momento di un’eventuale creazione o bivio artistico; maggiore è la quantità di parole che conosci, maggiore sarà la possibilità di far arrivare il tuo pensiero o volutamente nasconderlo. Un conto è rifiutare qualcosa perché lo conosci, un conto è rifiutarla per pregiudizio o frustrazione. Nulla in fin dei conti è formale, se non nella testa, nell’intenzione; spesso anche l’improvvisazione o ciò che viene definito di ricerca può esserlo. Paradossalmente alcune lezioni di ballet con una ricerca sulla musicalità e ritmo specifici, un allineamento fisico e respiro basati su principi di anatomia e fisiologia del movimento molto chiari, possono risultare molto più attuali, utili e funzionali alle dinamiche performative contemporanee. Anche da spettatrice amo tutta la danza quando è vera, sentita ed autentica; ma di nuovo questa autenticità e purezza nasce dall’interno dell’artista stesso.
4. Di che cos’altro è fatta la danza oltre al movimento per te?
La danza è fatta da tutto ciò che questo movimento trasporta. Mi viene in mente un mio viaggio lungo il Gange. Il movimento del corpo è come l’argine di un fiume; segue la sua fluidità e il suo scorrere, ma non ti fermi a guardare l’argine … Guardi il fiume; senti il suo rumore, vedi le sue cascatelle, le ombre degli alberi che si riflettono sull’acqua, i villaggi che incontri, le persone che vedi bagnarsi dentro le sue acque, le acque che si ingrossano e pochi chilometri più avanti sembrano seccarsi … i colori che cambiano a seconda le ore del giorno, i bambini che si lavano insieme alle vacche sacre. Le puzze e gli odori che da esso emergono. Ecco per me la danza è tutto questo. Frammenti di quotidianità, di ricordi, di vita, che riemergono, scorrono e si fissano.