Vivere lo yoga – Intervista a Benedetta Capanna
L’ Intervista “Vivere lo Yoga” è tratta dalla tesi di Laurea in Storia della danza e delle arti del movimento di Maddalena Elisa Clara, relatore Prof Cervellati Elena, presso l’Università di Bologna Scuola di lettere e Beni Culturali. Il titolo della tesi è: IL RESPIRO YOGICO NEL CORPO SOTTILE DELLA DANZA D’AUTORE ITALIANA: CHIARA CORTE, FRANCESCA PROIA E BENEDETTA CAPANNA
– Quali sono, secondo te, i tratti d’unione, i concetti di base che danza e yoga condividono maggiormente, sia a livello teorico che pratico?
Se chiudo gli occhi e mi focalizzo su cosa siano Danza e Yoga, le due parole che associo subito ad essi sono Amore e Gratitudine. Entrambi strumenti di crescita e di evoluzione, richiedono dedizione e costanza, stupore e freschezza. Sono due percorsi che ti mettono in gioco continuamente, che non ti permettono di sentirti arrivato ma che offrono tanta presenza e chiarezza. Entrambi coinvolgono visceralità e istinto, intuizione e lucidità. Sono momenti di autonalisi e di profonda osservazione, dei movimenti fisici e mentali, ma anche di abbandono totale. Quasi dei processi alchemici e di trasformazione, anche dello spazio. Viaggi verso una rinnovata visione della realtà e un grande abbraccio del silenzio. Sembrano nascere e addormentarsi in esso.
– Secondo la tua esperienza, in che modo la pratica yogica può essere utile alla danza, e viceversa?
Secondo me c’è da fare una piccola distinzione tra tecniche di Yoga e Yoga, e ancora di più tra Yoga Asana e Yoga. Ormai lo Yoga è diventato popolare, e quello che viene proposto è il più delle volte un workout di fitness. Non c’è nulla di male in ciò, perchè comunque se insegnato correttamente non può fare altro che del bene. Ma credo che stia creando confusione in chi ne fruisce e nella percezione di cosa sia lo Yoga. Da studiosa e amante di questa disciplina e arte, sempre con tanta curiosità, ho partecipato a molti seminari in Italia e all’estero per vedere, conoscere ed esplorare punti di vista, stili e approcci diversi, e posso dire, dopo più di vent’anni di pratica, che spesso le lezioni di danza sono molto più “yogiche” di molte classi di Yoga tanto pubblicizzate! Trovi più respiro, più consapevolezza, più devozione, più fede, più trasporto, più ascesi in classi di danza che in seminari di Yoga dove sei applaudito se riesci a fare un asana difficile. C’è stato gradualmente un “asanizzare” lo Yoga, tagliando fuori aspetti molto più importanti, più intimi, più sottili. Ciò non toglie che la pratica di asana e vinyasa, anche presi al di fuori del loro contesto più ampio e complesso, siano ottimi inseriti nel training per l’elasticità, tonicità, e connessione del corpo. Ma c’è tanta simbologia in queste pratiche, tanta espressività nella loro purezza, tanta vitalità e tante sfumature. Fluidi, viscere, ossa, muscolatura profonda, respiro…e oltre. Ogni aspetto della nostra fisicità rispecchia una diversa qualità di movimento, una diversa dinamica, uno stato psicologico. L’ esecuzione degli asana ci può aiutare ad esempio a modulare ciò. C’è una grande differenza in ciò che percepiamo mentre e dopo la pratica di una torsione, o di un movimento di piegamento in avanti o di inarcamento indietro. Stimoliamo aspetti diversi; e allora come performer o interprete come posso utilizzare ciò nella mia coreografia, o nel ruolo che devo interpretare? Prendiamo anche il pranayama, che lavora in modo ancora più sottile degli stessi asana e che spesso ormai non viene per niente preso in considerazione. Non è tanto una serie di tecniche di respirazione, quanto un modo di gestire e lavorare sull’energia e sugli stati mentali. Anche questo è interessante da portare nel proprio training. E così andando avanti, tra mudra, bandha e la meditazione. Alla mia prima lezione di Yoga fu come se mi integrassi da una scissione nella dolce sospensione del respiro. Ebbi la sensazione o visione, di veli cadere di fronte ai miei occhi, e questi veli, infiniti, continuano a cadere ora e ogni qual volta mi offro la possibilità di abitarmi, di vivermi e di andare oltre. Per me è solo attraverso questo incarnamento che posso arrivare poi ad una trascendenza. Come danzatrice, lo Yoga mi ha sicuramete arricchito a livello fisico, donandomi connessione, propriocettività, chiarezza e modulazione di qualità. Mi ha aiutato a gestire meglio la mia energia, a condurla, a diluirla o potenziarla a seconda delle occasioni. Ma sopratutto mi ha donato integrità, un corpo pensante, più che un corpo con una testa-mente. Per me fu una rivelazione quando un swami durante un bel seminario disse che la mente era lunga e larga come il corpo! Lo Yoga è penetrato lentamente, silenziosamente e inesorabilmente in tutta la mia vita, e certamente è presente nella Danza. Dal canto suo la danza, e il vivere come danzatrice, con la sua creatività e con i suoi alti e bassi, anche economici, è stato un bel campo di azione e sperimentazione per lo Yoga. Oggi parlavo con una mia amica danzatrice, di New York, e condividevamo l’opinione di come coloro che hanno avuto una carriera professionale appagante nella danza, nell’insegnamento dello Yoga offrano una pratica sensibile, esperienziale e meditativa. Utilizzano la pratica come spazio di recupero delle energie fisiche, mentali, emozionali consumate, uno spazio in cui non c’è nulla da dimostrare ma da concedersi. Credo che in questo ampio spazio, non performativo e di non aspettativa, molti danzatori possano attingere benessere e rinnovamento.
– Lo yoga è una disciplina che ha origini molto distanti dalle nostre, per questo ed altri motivi, spesso il suo significato viene travisato. Quale sarebbe secondo il tuo parere, il modo migliore per trasmettere e apprendere tale pratica?
È una domanda che mi pongo spesso anche io perchè sento che insegnare Yoga è una grande responsabilità. Esso va trasmesso con tanto rispetto, attenzione e devozione alla tradizione, per non fargli perdere la sua autenticità, ma allo stesso tempo adattarlo a una realtà completamente diversa da quella degli antichi yogin che lo sperimentavano nell’antica India. E’ facile crearsi la maschera del maestro e diventare, in un’epoca di spaventosi estremismi e di grande fragilità e altrettanto facile consumo, bizzarri talebani e finti portatori di verità assolute. Certamente ogni volta che mi trovo ad insegnare cerco di entrare in profonda connessione con chi ho di fronte, per abbracciare meglio le sue esigenze e per trovare un linguaggio e uno scandire che ci accomuni. E mi accorgo che la trasmissione avviene in modalità sempre diverse, anche la pratica che si crea cambia qualità e ritmo a seconda del gruppo a cui insegno e all’interno dello stesso si creano differenti scambi. Ci sono persone che hanno bisogno di essere incanalate mediante un processo strutturato e anche pressante, di passare attraverso un profondo lavoro di radicamento e consapevolezza, non per reprimerle ma per dargli la forza di utilizzare le proprie capacità disperse. Altre invece hanno bisogno di essere quasi scosse per cominciare a far sgretolare strutture che coprono invece le loro potenzialità. Alcune persone le devi toccare con la voce in maniera delicata, altre hanno bisogno di sentire la tua mano forte sulla loro schiena per percepire il loro stesso respiro. Ogni persona è un universo, e ogni persona per me è un maestro. Insegnare è una delle pratiche, dei sadhana, più preziosi. Spesso mi sento imbarazzata nel dire che insegno yoga, perchè mi sembra poco umile e presuntuoso. Mi sento più una viaggiatrice innamorata del luogo che ha scoperto e desiderosa di condividerne la bellezza con i suoi amici. Prima che insegnante sono allieva, così ogni piccola scoperta e percezione che vengono dal mio studio personale e dalla mia pratica quotidiana, diventano stimoli da passare ad altri. Credo che nell’insegnamento bisogna approcciarsi con onestà e sincerità prima di tutto. Si può insegnare solo ciò che si è veramente vissuto, non qualcosa letto dai libri. E quello che mi interessa principalmente non è tanto passare una serie di tecniche ed esercizi, quanto far nascere durante gli incontri la motivazione e l’essenza della pratica.
Jader Tolja in “Essere corpo” rispetto alla formazione dice cose che abbraccio pienamente: ” Una formazione per essere efficace ti deve dare fondamentalmente due cose: fiducia nelle tue capacità naturali e acquisite e senso di realtà… Un aspetto fondamentale riguarda come l’insegnamento è comunicato: se tramite principi o tramite tecniche. Ovvero vale sempre il concetto di insegnare a pescare piuttosto che regalare pesci. Se invece di dare delle tecniche specifiche, come viene fatto generalmente, fai sperimentare e capire i principi universali su cui si basa il lavoro, poi la persona può costruirsi tutte le tecniche di cui potrà avere bisogno nella sua pratica a partire dai principi che ha assimilato”. Nella grande intimità che lo Yoga ci dona, non c’è nulla da raggiungere, solo assaporare la risonanza di una verità sottile, libertà che è mare infinito, ma anche piccola stella, oltre le nostre continue trasformazioni.
– Esiste, secondo te, un tipo di yoga più adatto e “contestualizzabile” di altri rispetto al mondo occidentale?
Non credo ci sia uno yoga più adatto, ma uno yoga che ci risulti più vero, che abbia una risonanza con noi. Stessa cosa vale per i maestri. Spesso mi viene fatta la domanda: “che tipo di yoga fai, che tipo di yoga insegni?”. Se riflettiamo, questa domanda è riferita prettamente a marchi registrati e organizzazioni che il più delle volte non hanno niente a che vedere con scuole tradizionali dello Yoga. In oltre vent’anni ho esplorato diversi approcci e tradizioni da cui ho attinto e assorbito ciò che aveva risonanza profonda in me. Ho seguito e seguo corsi di insegnamento e specializzazione e ho dei maestri come punti di riferimento. Lo yoga è oltre i diplomi e i nomi, questi sono convenzioni, che cercano di dare una qualità standard all’insegnante per non nuocere a chi potrebbe andare a fare lezione. Ma è la pratica giornaliera, il cercare di vivere in strada ciò che si sperimenta sul proprio tappetino, che fa la differenza. Il confluire di queste esperienze e il loro armonizzarsi è avvenuto per me nell’incontro del 2008 con Diane Long, con la quale ho cominciato a seguire l’approccio allo Yoga di Vanda Scaravelli. Vanda fu principalmente allieva di B.K.S. Iyengar e la leggerezza e la profondità che ho trovato in questo lavoro hanno aperto un nuovo capitolo nella mia visione dello Yoga e nella sua integrazione nella mia vita. E’ diventato meno formale, più vitale, più carnale e più etereo, più semplice. Vanda Scaravelli scrisse un libro molto bello: Awakening the spine, da poco tradotto in italiano. Una mia traduzione di uno dei passi che considero più belli è : “Lo Yoga è un processo vitale, una trasformazione che cambia di momento in momento. La verità come l’amore, non può essere dimostrata, o spiegata, o offerta, è lì con tutta la sua immensità attorno a noi, riempiendo lo spazio. Dobbiamo solo guardare ed esserne consapevoli.” In questa frase c’è lo Yoga, c’è la Vita, c’è la Danza, e ci sono le mie scelte!
– Tra le tue coreografie ce n’é una ,o più di una, che senti maggiormente “intrise” di yoga? Come mai/ in che modo?
Sicuramente in tutte c’è un pò di Yoga, perchè praticare Yoga mi ha portato a vedere e sentire e vivere le cose in un certo modo. E quindi lo Yoga è presente anche nella preparazione ad esse, anche in quelle che possono sembrare più lontane come Danze Rotte… nella bolla di Pasolini. Ma il trio Apah e il breve film Epiphany of returning sono forse, tra gli ultimi lavori presentati, quelli più chiaramente intrisi.
Apah, in sanscrito sono le acque, sia terrene che celesti, il primo elemento cosmogonico con potere purificante, medicamentoso e vivificatore. Di genere e carattere femminile, sono chiamate Dee cioè Devih. La particolarità dell’ acqua, fa notare Raimon Pannikar nel suo commento ai Veda, è il possedere un carattere intermedio, tanto da non essere nè di aria nè di terra. Sta sulla terra ma viene dal cielo, porta la vita ma può essere portatrice di distruzione. Scorre in superficie ma anche in profondità e può evaporare. Prende quindi le forme più diverse, possiede una libertà senza limiti. Assomma in sintesi il movimento dell’aria e la gravità della terra: piena vitalità. Lo stesso lo troviamo nel corpo umano con i suoi fluidi e le sue pulsazioni. La simbologia di questo elemento in quasi tutte le tradizioni è quella del ritorno alle origini e della purificazione.
“Qualunque peccato si trovi in me qualunque male possa io aver compiuto, se ho mentito o giurato il falso, o Acque, allontanatelo da me.
Ora io sono venuto a cercare le Acque. Ora noi ci fondiamo, mescolandoci con la linfa. Vieni a me, Agni, ricco di latte! Vieni e arricchiscimi col tuo splendore!” RV X,9
In questi versi è il senso profondo di questo trio, scandito dalla musica del Sal puri, una danza sciamanica tradizionale coreana che significa “sciacquare via gli spiriti maligni”. Un trio che riecheggia immagini ancestrali e segni appartenuti a un lontano vissuto collettivo, per ricreare in un rituale danzato contemporaneo una sorta di trance attraverso la quale poter elaborare e esorcizzare la pesantezza della nostra storicità e della più semplice fragilità umana.
Per me la Danza è sempre stata intrisa di misticismo. Da bambina ero convinta che Dio si rivelasse a noi attarverso la musica e che attraverso la danza potessimo parlare con lui. Per Apah ho scelto una musica coreana, perchè a New York ho lavorato molto con una coreografa coreana, Myung Soo Kim, divulgatrice e ambasciatrice delle danze tradizionali sciamaniche. E’ questo un aspetto che ho trovato mio sin dall’inizio, e che sento appartenermi. Epiphany of returning invece è un film-assolo di danza che esprime il mistero e lo stupore del ritorno. Realizzato a New York con il regista Richard Sphuntoff, con esso si vuole catturare la ricerca dell’autenticità, attraverso la ripetizione di gesti e piccole variazioni degli stessi, per un continuo incarnarsi nel momento presente. I movimenti sono un collage di brevissimi passaggi di coreografie che mi hanno segnato, ricomposti in ordine di memoria viscerale, ripetuti ogni volta come fosse la prima, ritrovando lo stupore, l’emozione del sentirli attraverso il corpo.
Poi molto spesso mi capita di fare performance di improvvisazioni con musicisti dal vivo. Per me sono dei viaggi e delle vere meditazioni in movimento. Un esempio è la performance Tra. Tra è lo spazio non spazio, confine e sostanza… è ciò che include e ciò che definisce. E’ il tessuto connettivo della vita. Impercettibile e sempre presente in ogni attimo, è la transizione-azione che rende prezioso ogni movimento e ogni pausa. E’ come la metafora dello svelamento. Sempre Pannikar scrive: “non è sollevando il velo (e vedendo così la nuda realtà) che noi scopriremo il reale, bensì rendendoci conto che il velo copre e nasconde e che la scoperta di questo fatto costituisce l’effettiva rivelazione. Rivelare in questo senso non è svelare, sollevare il velo, ma “rivelare” il velo, renderci consapevoli che ciò che vediamo e tutto ciò che possiamo vedere è il velo, e che viene lasciato a noi “indovinare”- o potremmo dire, “pensare” la realtà, che è resa manifesta proprio dal velo che la ricopre. Non possiamo separare il velo dalla cosa velata, proprio come non possiamo scindere una parola dal suo significato, o ciò che è udito da ciò che è compreso. ” Tra è un attimo di preziosa lucidità.
– Com’é strutturata una tua lezione “tipo” di danza? Ti capita di integrare veri e propri esercizi di yoga al training sul movimento?
Nel training che propongo il mio fine è quello di preparare il corpo a vari livelli di ricerca, coltivando percezione, creatività, sensibilità e capacità tecniche. Il danzatore contemporaneo deve essere infatti aperto a dinamiche, qualità, tematiche e situazioni diverse e spesso anche contrastanti. Le varie fasi del lavoro sono enfatizzate a seconda delle persone che ci sono: danzatori professionisti, amatori, studenti di danza o attori. Solitamente parto dal respiro e da principi dello Yoga e dall’anatomia esperienziale, attraverso sequenze che si sviluppano nei vari livelli e nei vari piani di movimento sostenute da momenti di improvvisazione. Questo per affrontare la tecnica con leggerezza, ricercandone la sua funzionalità e supporto nella dinamica e nello spazio. L’ultima parte della lezione è dedicata all’esecuzione e\o costruzione di sequenze danzate, ma non necessariamente, perchè il danzare c’è sin dall’inizio e anche camminare nella sala, come rotolare a terra, sono già danza e hanno la sacralità che le è propria. Questi sono gli elementi principali della lezione ma cambiano e variano a seconda del lavoro che viene affrontato durante l’anno. Ci sono esercizi di Yoga che sono riferimenti nelle mie lezioni, soprattutto alcuni che aiutano a liberare e a direzionare respiro ed energia nel corpo e nello spazio. Mi può capitare anche di inserire momenti di meditazione, o tecniche di concentrazione per focalizzare il gruppo verso una qualità o stimolare un tipo di presenza o di sentire. La lezione è molto influenzata certamente da quello che sto portando avanti a livello artistico e anche nella mia esplorazione Yoga. Non riesco a scindere questi aspetti, pur tenendoli anche separati per le loro diverse peculiarità. Tutto parte da un’urgenza intima del movimento, il quale non è pensato e non viene da un processo mentale, bensì da un’esigenza, da un bisogno, da un’urgenza intima, interiore. Come un poeta che sente dentro di sè il suono, il ritmo, l’accostamento delle parole e ha bisogno di trascriverle subito urgentemente. Questa urgenza interiore nasce da una connessione profonda col proprio corpo, anche questo non pensato, ma vissuto, vitale e sensibile.
Quando il movimento parte da un corpo connesso e incarnato, c’è danza in ogni gesto come nella stasi. Quello che sto notando è che con questa impostazione l’ideale è per me avere due ore a disposizione. In un’ora e mezza mi sembra sempre di dover correre, accellerare o saltare qualche passaggio. In lezioni da due ore ci si apre a un’atmosfera più laboratoriale e le persone hanno più spazio per un’elaborazione personale.
– È possibile, viceversa, che nelle lezioni di yoga rientrino elementi appartenenti più alla sfera del movimento e della danza?
Proprio quest’anno ho tenuto un ciclo di lezioni di approfondimento, dove attraverso esplorazioni del movimento tratte dall’ anatomia esperienziale siamo andati a ravvivare le pratiche yoga per renderle più intime, profonde e trasformative, e non irrigidirle nel tecnicismo. E’ facile cristallizzare ciò che si conosce in una forma e attraverso questo cristallizzare il corpo. Le foto di Yoga hanno creato inoltre un’aspettativa estetica e un senso di incapacità in molte persone. Partire dal sentire corporeo invece ci aiuta a non identificarci con modelli, a non porci obiettivi e ad abbracciare le nostre fragilità, trovando la poesia nascosta dietro di esse. Il voler arrivare a un certo punto prestabilito intorpidisce la pratica, irrigidisce il corpo, diminuisce le possibilità e uccide lo stupore che solo il “qui e ora” possono regalare. Nell’ascolto di sé la vita invece si incarna e l’intelligenza dell’azione si rivela.
– Il tuo percorso ti ha portato oggi ad essere insegnante di yoga e insegnante di danza contemporanea, hai mai pensato di fare della trasmissione di queste arti un’unica formula didattica? Pensi che sarebbe possibile? Credi, inoltre, che per tutti i danzatori sarebbe utile praticare yoga?
Tutto è possibile ma non è una cosa che mi interessa. Danza e Yoga hanno comunque finalità diverse. Si incontrano, si possono intrecciare ma sono belle per l’unicità della loro offerta. Mi sembrerebbe un’ostentazione, una forzatura, non è una direzione che mi interessa. Ma sicuramente può essere un campo di sperimentazione anche molto intressante per altre persone. Nella pratica Yoga c’è un’intimità così forte che secondo me deve essere riparata e custodità. Ricordiamoci che tradizionalmente la sua trasmissione era tra maestro e discepolo, una relazione uno ad uno. Un verso dello Haṭhayoga Pradīpikā (prima lezione 11) dice: “Lo yogin che desidera la perfezione deve tener segreta in sommo grado la scienza dello Yoga, poichè essa, tenuta celata, è potente, ma divulgata perde il proprio vigore.” In molti testi antichi di riferimento è consigliata la pratica Yoga in luoghi riparati, nascosti. Personalmente, al di là di corsi su aspetti filosofici e storici che raccolgono un pubblico ampio ma molto focalizzato, io stessa seguo i miei insegnanti in incontri singoli o in gruppi piccoli. Come ha scritto Eric Baret nel libro Yoga tantrico: “La pratica non è qualcosa ma da qualcosa: non c’è nulla di cui appropiarsi”. E comunque elementi di Yoga ci sono stati dall’inizio della danza moderna, basti pensare alla pioniera Ruth Saint Denis o alla coreografa Martha Graham. Lo Yoga sicuramemte facilita la percezione della sacralità del movimento e dello spazio, e conduce alla percezione della ritualità anche nel gesto performativo. Per alcuni può essere il Feldenkrais un grande supporto, altri danzatori possono trovarlo nel Qi Gong o nel metodo Alexander. Io ho trovato nello Yoga grande forza e sostegno anche per la danza, ma per me lo Yoga è aldilà della Danza.
– Pensi che potrebbe diffondersi in futuro, in Italia, una forma di danza che coinvolga tanto il movimento quanto le posizioni yoga, e che possa estendersi a un livello coreografico fruibile ed efficace?
Tutto è possibile ma credo anche in questo caso sia una forzatura. Certo si può fare di tutto ma non è la forma, secondo me, a dare fruibilità ad una coreografia, quanto la presenza e l’intenzione di chi la crea e anche di chi la interpreta. Poi come ho detto precedentemente, viene data un’importanza eccessiva agli asana come se questi fossero lo Yoga. Se si prendono i testi di hatha yoga come la Haṭhayoga Pradīpikā o la Gheraṇḍa Saṃhitā , le posture sono molto poche e semplici. Quasi tutte a terra. Nello Yoga contemporaneo abbiamo aggiunto tante cose prese anche dalla ginnastica occidentale e abbiamo perso il contatto con l’origine. Anche il saluto al sole è una pratica contemporanea. Ormai si identifica lo Yoga con gli asana. Ma sono veramente solo un piccolo elemento. Ci sono i mudra, i bandha, i satkarma, i pranayama, la meditazione. E’ importante non confondere le cose e non dimenticare l’aspetto spirituale dello Yoga. Secondo me è più interessante prendere ispirazione dai testi, dalla simbologia, anche dai miti della cultura indiana. Prima l’essenza, poi la forma. Swami Yogaswarupananda, un monaco indiano che ho seguito non solo in Italia ma anche in India, con poche parole risolve tutto: “Nello Yoga devi sentire e poi capire, devi sentire il Reale. Quando c’è consapevolezza ogni posizione è un asana, ogni respiro è un pranayama, ogni pensiero è una meditazione.” La pratica dello Yoga non è verso qualcosa ma da qualcosa, così la danza può essere Yoga. E magari, può sembrare assurda come proposta, ma credo sarebbe interessante, proporre una pratica yoga al pubblico prima di uno spettacolo, per portarlo a vedere, sentire, percepire la performance con la totalità del suo essere e in modo meno “formale”, più pieno.